mercoledì 27 aprile 2011

I tunisini a Mozzo sognano la Francia

«In patria le frustate, qui la libertà»
Il viaggio degli immigrati dall'Africa a Bergamo. Fahrat, 28 anni, ha il corpo pieno di cicatrici
Hajrak: sul barcone in 53, ma 4 sono morti in mare. Mabrouk: ho lasciato 3 bimbi nel mio Paese

Il costato di Farhat porta impressi i segni indelebili delle conseguenze della ribellione al regime di Ben Ali ed è quasi surreale osservarlo mentre si solleva maglietta e felpa qui, all'imbocco del sottopasso della Dorotina di Mozzo: su petto, schiena, pancia, braccia non si contano le cicatrici fresche. Sono decine. «Tutte frustate – racconta in un italiano stentato –. Mi ha preso la polizia tunisina fedele al regime durante le sommosse popolari di qualche mese fa e mi ha fatto questo. Ma ho ottenuto la libertà e ora sono qui».

Farhat Gharmoul ha 28 anni e riesce, nonostante tutto quello che ha passato, a sorridere: viso smagrito sotto una coppola nera, racconta di essere contento di trovarsi ora in Italia, lontano da quello che ha dovuto sopportare. Purtroppo, però, anche dalla sua famiglia. Il suo sogno – spiega – è ancora a metà, perché lui, come gli oltre trenta suoi connazionali che da ormai diversi giorni si trovano a Mozzo, vorrebbe in realtà andare in Francia a lavorare. Oggi alcuni dei tunisini che bazzicano Mozzo andranno a Milano a ritirare il permesso di soggiorno temporaneo. Non nascondono di attendere il giorno dopo con trepidazione e mostrano la ricevuta con la prenotazione del documento.
Altri il permesso – «per motivi umanitari» c'è scritto – ce l'hanno già. «Con questo possiamo andare in Francia», confidano.

Nel frattempo, però, si sono concentrati alla Dorotina di Mozzo, dormendo in luoghi di fortuna. Ieri pomeriggio è stato demolito un vecchio stabile di 25 metri quadrati in un campo alla periferia del paese, nel quale avevano trascorso la notte ben 16 tunisini.
«Era l'unico posto al coperto, adesso dove andremo? – si chiedono perplessi –. Siamo in settanta. Siamo regolari, è vero, ma nessuno ci aiuta». In realtà i tunisini che sostano a Mozzo sono tra i 20 e i 40, a seconda degli spostamenti, a piedi, tra Bergamo e Ponte San Pietro.
«Quattro di noi morti in mare»
Uno di loro si chiama Hajrak: 29 anni, la faccia sveglia. Racconta volentieri la sua storia, simile a quella di tanti suoi connazionali. È la storia che l'ha portato fino in Italia, nella Bergamasca, assistendo a una tragedia: «Sono partito dalla Tunisia il 5 marzo con un barcone: eravamo in 53, ma siamo arrivati a Lampedusa in 49. Quattro sono morti in mare. Siamo partiti alle 8 di sera e la traversata è durata 20 ore filate».

Hajrak si batte un pugno al petto velocemente: «Venti ore di paura, c'era il mare mosso, onde enormi. Più volte la barca si è riempita d'acqua. In uno di questi momenti in quattro sono morti e sono finiti in mare. Io ho pagato 1.500 euro per il viaggio: era tutto quello che avevo messo da parte in Tunisia. Arrivati vicino a Lampedusa siamo stati affiancati dalla motovedetta della Guardia di finanza: ci hanno subito soccorso. Anche al centro di prima accoglienza ci hanno trattato bene, poi dopo 9 giorni ci hanno portati a Catania con l'aereo e, da lì, ci siamo spostati verso il Nord con il treno».

Paura dei controlli? 
 «No perché quando mostriamo il permesso temporaneo ci lasciano stare». L'obiettivo di Hajrak è arrivare in Belgio, dove vive la sorella Benthanouna, vent'anni più grande di lui. «L'Italia è davvero bella, ma io sogno di fare il giardiniere e avere una famiglia là», confida. I suoi anziani genitori e un altro fratello sono rimasti in Tunisia: sapevano della sua intenzione di venire in Europa, ma non ha più avuto modo di avvertirli del suo arrivo in Italia: «Ormai siamo a Bergamo da 20 giorni – sottolinea –: ci ha aiutato un po' la Caritas, ma ci manca da mangiare. Per quattro giorni non ho messo niente in bocca».

«Penso ai miei tre bambini»
Patito per la fame è Mabrouk, 35 anni, dimagrito di dieci chili in un mese, da quando ha lasciato in Tunisia la moglie e i loro tre bambini di 1, 3 e 7 anni, e ha cominciato questo viaggio verso l'Europa: «In Tunisia non c'era più da lavorare, ma io voglio fare qualcosa per mantenere la mia famiglia. Penso sempre a loro». Viso smagrito e camicia verde militare, Mabrouk mostra un vecchio cellulare con la sim card di una compagnia tunisina: «Non posso nemmeno chiamare a casa – spiega amareggiato –, ma soltanto ricevere le telefonate. In queste notti abbiamo dormito dove capitava: sdraiati per terra nei campi, oppure sulle colline attorno a Bergamo».

Ma perchè così tanti tunisini si sono concentrati proprio nella zona di Mozzo? Un interrogativo al quale nessuno risponde: probabilmente l'arrivo in paese dei nordafricani nasce dal passaparola tra connazionali. «Ci conosciamo un po' tutti e qualcuno è pure parente», spiegano, facendo capire che i contatti in zona li hanno con altri tunisini arrivati qui in precedenza: dopo averli raggiunti, però, questi non hanno potuto garantire loro un posto dove dormire.

Così hanno cominciato a bivaccare: girano spaesati nelle strade di Mozzo, ma tutto sembrano fuorché criminali. «La gente pensa che rubiamo per mangiare – dice Hajrak –, ma non è vero: siamo senza casa, ma comunque onesti». Uno di loro indossa però un paio di scarpe nuove di zecca. «Non sono mie – spiega –. Cioè, adesso sì. Ma non le ho rubate, anzi le mie le hanno rubate a me. Queste me le ha date il Comune».

Fabio Conti - L'Eco di Bergamo - Giovedì 28 Aprile 2011 CRONACA, pagina 27

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