La Storia

27 gennaio, il giorno della Memoria
 



Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
 

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Il Gamber


C'era una volta un uomo grande e grosso, tipo un gigante, con quei cappelli grossi, neri, quei mantelli, sai, neri e lunghi che si buttavano sulla spalla, era latitante perchè aveva violentato  -  dicevano - una ragazza, e allora era scappato sulle montagne, e viveva da una stalla all'altra, di quelle dove andavano le mucche, i greggi; e quest'uomo si chiamava "Gamber", forse perchè camminava molto lo avranno soprannominato così.

Allora le donne avevano tutte paura di lui, perchè lui se trovava delle donne sole non è che non gli faceva proprio niente.

Era vagante, e come la gente lo vedeva arrivare gli offrivano da mangiare e da bere purchè se ne andasse via, perchè nessuno lo ospitava. Perchè lui non era proprio cattivo, però alle donne faceva paura.

La nonna, di cent'anni, l'aveva conosciuto e lui aveva sempre rispetto per lei e la sua famiglia: forse erano state le malelingue a mettere in giro questa diceria, e poi lui era timido, non era persona che parlasse tanto, e così alimentava la diceria: sai com'era, alla sera, quando la gente si riuniva nelle stalle a raccontare al caldo, a ricamare, cucire e raccontare delle storie ai bambini.

Mio papà quand'era piccolo andava a pascolare come tanti altri ragazzini in montagna: e gli davano da mangiare latte, gremma, mascarpa, e formaggio, e grulle col latte.
Alla sera raccontavano le storie paurose e gli raccomandavano: "Attento a Gamber, se lo vedi vieni ad avvertirci!".

E lui una sera che aveva bisogno di fare la pipì è uscito per andarla a fare nel prato.
Com'è uscito si è trovato di fronte quest'uomo gigante tutto nero, figurati! Allora è tornato indietro di corsa, senza dire niente, mentre il Gamber è entrato e gli uomini gli hanno offerto da mangiare e da bere. E lui, mio papà, per la paura non s'è più mosso.

Alla fine, quando il Gamber ha fatto per uscire, gli è passato vicino e gli ha messo una mano in testa,
scompigliandogli i capelli e dicendo: "Ciao bel matalìn!"
E lui, quando quello è uscito, si è trovato i calzoni tutti pieni, e non solo di pipì, e non sapeva come fare: non osava spogliarsi davanti agli altri. Per fortuna non l'aveva fatta tanto molle, così quando tutti sono andati a letto lui ha tolto col fieno quello che c'era di grosso e ha nascosto la sua popò insieme a quella delle mucche.

Questa cosa gli è rimasta impressa tanto che la raccontava sempre a noi suoi figli. E noi gli dicevamo: "Ma non avevi da cambiarti?" E lui rispondeva: "Ma se non avevamo neanche le mutande! La sporcizia? Aiutava a tenerci insieme: non son mica morto per quello! Sun ancù qui!"

E com'è andato a finire quel Gamber? Non l'han trovato più. Forse l'ha ucciso qualche uomo perchè lui avrà importunato qualche donna o qualche ragazza. Sarà finito in qualche canalone. Chissà.



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Fantasmi a Bergamo



Dopo il diavolo e gli spiriti, torniamo a parlare di entità soprannaturali nella provincia di Bergamo, così ricca di tradizioni popolari in merito.

A Brignano d’Adda ad esempio, i vecchi raccontano del Fantasma di Cügiane. Nel campo detto di Cügiane, dal soprannome dei proprietari, mentre i contadini lavoravano, una certa donna stranamente vestita, a una certa ora del mattino o del pomeriggio, si avvicinava per invitarli a colazione o a merenda, dicendo: «Venite, è tutto pronto». I contadini, come si può credere, affamati e stanchi, si affrettavano verso il luogo dove effettivamente era preparata una tavola imbandita, ma quando stavano per cominciare il pasto, ecco che spariva tutto.

Dopo pochi istanti la donna riappariva sopra uno degli alberi vicini a ridere di loro.

Radicata nelle valli bergamasche è anche la superstiziosa credenza dei «confinati». Venivano chiamati così coloro che erano morti senza ricevere da un sacerdote il sacramento dell’estrema unzione. Si diceva che questi non potessero rimanere nella tomba benedetta del cimitero e quindi si mostrassero di
notte vicino al cancello d’entrata, oppure ogni mattina il loro corpo era ritrovato allo scoperto sotto la fossa. In questo caso i corpi venivano presi e sepolti in un luogo dove non si sentivano le campane: infatti vuole la leggenda che solo lontano dai luoghi sacri questi corpi riuscivano a trovare pace.

In Costa Serina si racconta che questi «confinati» uscivano dalla tomba emettendo urla e lamenti infernali e addirittura che tra questi dannati ce ne fosse uno che aveva preso l’abitudine di passeggiare sottoforma di cane color della brace, dal viso però umano, per le strade della frazione di Zogno.

Proseguendo il nostro viaggio, si racconta poi che durante certi temporali l’anima di un ladro sacrilego sottoforma di grande gru nera appare tra le nubi al di sopra della chiesina che sorge nel villaggio di Orezzo. La tradizione vuole infatti che una volta, molti anni fa, un ladro si fosse introdotto nella chiesina per sottrarre la pisside e gli altri vasi sacri con i gioielli, di cui era adorna la statua della Madonna. Dopo aver svuotato la pisside gettando le particole consacrate in una fontana vicina e dopo aver fatto un fagotto di quanto aveva trovato, il ladro era fuggito, ma nell’attraversare il bosco era stato colpito e incenerito da un fulmine.

Gli oggetti rubati erano stati poi recuperati intatti e anche le particole erano state tolte dall’acqua miracolosamente asciutte. Proprio per la particolare forma che assume questo fantasma la valle in cui appare ha preso il nome di Valle della Gru.

Viene narrata infine in valle Imagna la visione di un certo Padre Claro che si recò con un confratello in un paese della Val Serina di cui non si sa il nome. Il parroco del paese li accolse malvolentieri e dopo la funzione e una magra cena, annunciò ai due predicatori che sarebbero dovuti andare a dormire in una casa vicina dove «ci si sentiva».

Effettivamente i due frati passarono una tale notte che il mattino seguente, uscendo dalla camera, Padre Claro si accorse che il suo compagno era sbiancato dallo spavento. Dalla mezzanotte all’Ave Maria del mattino era stato un succedersi, per tutta la casa, di urla e di pianti, strascicar di catene e rimbombare di colpi alle porte delle camere dei due malcapitati ospiti.

Il peggio era che avrebbero dovuto passarvi anche la notte seguente. Rassegnati alla loro sorte, si accordarono di rimanere in orazione, tutti e due nella stessa stanza. A una certa ora, ecco un risuonare di colpi ripetuti alla porta. Padre Claro disse: «Se qualcuno ha bisogno di noi, venga avanti in nome di Dio».

Ed ecco apparire e farsi avanti il fantasma di un personaggio vecchissimo, coperto di strani abiti, al quale Padre Claro domandò: «Che volete?». «Te lo dirà chi mi segue» rispose lo scheletrico anziano,
dietro al quale, uno dopo l’altro entrarono, andando ad allinearsi davanti ai due monaci, altri due fantasmi vecchissimi. Dietro costoro si presentò d’un tratto l’aitante figura di un giovane di bell’aspetto, il quale, iniziando a parlare, rivelò che i tre che l’avevano preceduto erano dannati per essersi fraudolentemente impossessati della casa in cui si trovavano; egli era stato condannato alle pene del Purgatorio, perché, pur essendo loro erede, non era a conoscenza dell’indebita usurpazione perpetrata dai suoi avi.

Pregava però i due missionari di convincere i propri eredi a restituire la proprietà alla Chiesa affinché finisse la sua pena. La tradizione popolare non lo dice, ma si può credere che dopo quella visione Padre Claro si sia adoperato per l’adempimento di quanto gli era stato detto.

Davide Longoni

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8 settembre 1943 - Testimonianze


BALBONI Ivo
Già l’8 settembre, quando sono stati uccisi i primi partigiani a Val della Torre, ero andato con loro  perché c’erano dei
miei amici più anziani, già soldati. Mi hanno rimandato a casa dicendo che finché non  mi chiamavano potevo starmene tranquillo; inoltre mantenersi in montagna non era facile, perché  bisogna mangiare,  avere soldi.  
    
BUROCCHI Lorenzo
L’8 settembre ero ancora all’ospedale di Chieri e quelli del paese si sono messi a suonare le campane e a  fare festa. I
miei sono venuti da Rivoli a trovarmi e io non ero contento per niente perché comunque il  re  aveva tradito tutti noi soldati e aveva ancora detto:”Il soldato italiano conserva le sue armi e reagirà contro qualsiasi attacco”. Io avevo una pistola e due bombe a mano, ma cosa facevo con quelle armi?
Non ero contento perché prima di tutto non sapevo cosa combinare, e poi pensavo a tutti quelli che erano  in Iugoslavia,
in Grecia, a come avrebbero potuto fare coi tedeschi, coi partigiani iugoslavi. Capivo che  la guerra non era finita.
Si è saputo subito che a Chieri era arrivata una divisione delle S.S., non so se era la Goering, ma ricordo che è rimasta
due o tre giorni e poi è stata mandata subito in Russia, altrimenti ci avrebbero beccati tutti,  anche gli ammalati.
Fra l’altro lì a Chieri c’era il magazzino della IV Armata dei carabinieri e come a Rivoli la popolazione si  è riversata nella
caserma per prendere quello che poteva. I carabinieri non hanno lasciato entrare  nessuno, finché non sono arrivati i tedeschi che hanno preso tutto, i viveri, i mitra, le giacche imbottite  per quelli che andavano su nel freddo.
Ho visto insomma che era diventata una grande baraonda; i vecchi fascisti parlavano bene del
fascismo, anche perché il 25 luglio una parte di loro aveva preso un sacco di botte e quindi l’8 settembre sono passati subito dall’altra parte e volevano restituire quello che avevano preso prima.   
    
CARBI Guido
Io non sono andato a fare il partigiano subito dopo l’8 settembre perché ero giovane; l’8 settembre  avevo diciassette
anni e mezzo ed ero a casa. Si festeggiava la fine della guerra e c’erano i primi militari che scappavano. Quelli scappati dalla polveriera di Caselette avevano lasciato lì tutto quello che avevano, lenzuola, coperte, cibo e allora la gente ha portato via tutto. Io, invece di prendere le coperte, le lenzuola o qualcosa da mangiare, ho preso ventuno moschetti. Non so perché l’ ho fatto, però ho avuto l’intuizione che potessero servirmi. Infatti ho dato un moschetto e un caricatore ai
primi partigiani di Rivoli che sono andati a Val della Torre con Mario Sabet. Le prime bande erano già là l’8, 9 e 10 settembre e il 7 ottobre del ‘43 c’erano già stati otto morti a Val della Torre, partigiani uccisi dai tedeschi: i due fratelli Barone di Pianezza e alcuni ragazzi di Alpignano.  
    
CAVAGLION Miranda
Nel settembre del ’43 siamo stati deportati a Borgo San Dalmazzo, dove i tedeschi avevano fatto un campo di
passaggio, e da qui poi hanno deportato tutti gli ebrei, anche stranieri, ai campi di raccolta in Germania.
Ho conosciuto tantissimi ragazzi allora e mi è dispiaciuto dopo la guerra vedere i loro nomi in una bacheca alla stazione
di Borgo San Dalmazzo; quelli non sono più tornati a casa  
    
FERRERO Elio
Subito dopo l’8 settembre del ’43 mio fratello, che era della classe 1924, ha ricevuto la cartolina di precetto per
presentarsi militare. Mio padre gli ha consigliato di nascondersi da uno zio che avevamo ad Almese per non andare nella Repubblica Sociale. Dopo alcuni giorni sono venuti a cercarlo, ma mio padre ha detto di non sapere dove fosse suo figlio. Purtroppo in quel periodo c’erano tanti delatori che davano informazioni ai fascisti. Un sabato mio padre mi ha dato un pacco con dei vestiti e qualcosa da mangiare perché lo portassi a mio fratello ad Almese. Aveva legato un ombrello in un sacco della bicicletta col manico fuori e dentro aveva messo un moschetto. Mio fratello non voleva
prendere quel moschetto, perché era un tipo che non poteva vedere le armi.
Può darsi che qualcuno ci avesse visto perché mentre tornavo, alle cinque del pomeriggio, mia sorella mi è venuta
incontro per dirmi di non venire a casa perché questa era circondata dalle Brigate Nere.
Allora sono scappato. Mi hanno aspettato tutta la notte, volevano sapere dove fosse nascosto mio fratello.
Da quel momento non sono più tornato a casa e mi sono arruolato con le formazioni che erano qui in Bassa Valle e che avevano il servizio di vettovagliamento per le formazioni. Sono andato avanti un mese a fare questo lavoro.
Intanto, sempre grazie a delle spie che lavoravano per i reparti delle Brigate Nere, avevano già preso i connotati di
coloro che erano nelle formazioni; anche i carabinieri avevano fatto un verbale, che abbiamo trovato alla Liberazione, in cui si diceva: “Il Ferrero è stato visto spesso e sovente con elementi che appartenevano alle bande armate”.
Così a casa mia non c’è stata più tranquillità; venivano di notte e buttavano delle bombe a mano dentro la stanza dove dormivano mio padre e mia madre.
Io ero troppo conosciuto, avevo un difetto  un po’ grave, avevo i capelli rossi e tutti, quando mi vedevano, mi
riconoscevano.
In quel periodo arrivavano tanti giovani che non volevano presentarsi nella Repubblica e il nostro compito era quello di
disarmare. Venivamo a Rivoli dove c’erano le S.S. e con due pistole riuscivamo a prendere dei mitra e delle pistole che mandavamo su al comando. Il nostro comandante era Eugenio Fassino, perché in quel periodo eravamo nelle Brigate Garibaldi.  
    
FILIPPINI Corrado
L’ 8 settembre ero a Sarzana. Ricordo che quel giorno il telegrafista non riceveva più ordini. Allora verso le cinque del
pomeriggio ci ha detto che eravamo stati abbandonati e quindi abbiamo mollato le armi e siamo tornati a casa.
Con me c’era uno di Pianezza e uno di Collegno; abbiamo trovato un camion che ci ha portati fino a Torino e con altri mezzi siamo arrivati a casa.
A casa mi hanno detto di non restare perché alle casermette di Rivoli avevano già preso tanti soldati ai quali i tedeschi
chiedevano di andare a combattere con loro. Se si rifiutavano li mandavano a lavorare in Germania o in un campo di concentramento.
Allora nella notte ho raggiunto altri militari a Val della Torre ed lì ho trovato il primo gruppo, saranno stati venti o
venticinque uomini. C’erano Sampò, Livio Francia, Mazzola, Neirotti, tutta gente di Rivoli; c’erano anche una decina di meridionali che non sapevano dove andare.  
    
LEINA Marietta
L’8 settembre mio fratello Gino era militare a Bardonecchia.
Finita la guerra e caduto il Fascismo, Gino come tutti gli altri ragazzi che non avevano più nessun comando se l’è fatta a
piedi da Bardonecchia. E mi ricordo come adesso quella sera. Vicino alla cooperativa Lime c'era un piazzale grande e alla sera noi bambini avevamo l’abitudine di giocare a nascondino. Allora non c'era l'illuminazione che c'è adesso, era tutto buio, e abbiamo visto questo ragazzo che veniva a casa, saranno state le dieci. Era vestito da militare e allora se ti prendevano… Lui è arrivato a casa con tutto, aveva le giberne, il moschetto.
Prima di andare militare mio fratello lavorava alla cooperativa Lime, ma nel frattempo nella fabbrica avevano preso a
lavorare le donne, tra le quali anche una mia sorella. Lui ha chiesto se lo riprendevano.
Allora ti facevano un permesso speciale perché lavoravi per il governo, ma il capo fabbrica gli ha detto di trovarsi un altro
lavoro. 
A quel punto questi ragazzi erano un po' spaesati, il lavoro era quello che era e bisognava andare a presentarsi, e i
ragazzi che si consegnavano venivano mandati in Germania o nella Repubblica di Salò.
Allora mio fratello si è unito ad altri ragazzi. Erano in dieci circa, e hanno preso la via della montagna con delle persone
più adulte che potevano essere i loro padri. Così sono partiti e quando sono arrivati a Sant’Ambrogio hanno visto un camion della Repubblica. Si sono spaventati e sono scappati dentro una casa e uno di loro è stato preso e portato alle casermette in Via Asti a Torino. Allora quando era sul camion ha scritto su un biglietto che tutti erano stati presi e l’ ha firmato. È stato l’altro fratello che lavorava a Santa Maria a portare a casa il foglietto. Così abbiamo pensato che l’avessero preso. Il mattino dopo mia madre con altre mamme è andata in via Asti a vedere se c'erano i nominativi dei loro figli ed è risultato che solo quel ragazzo era stato preso.
Poi per lui è cominciata la vita della montagna.  
    
LEONE Pierina
Prima dell’8 settembre uno dei miei fratelli, per poter mangiare, aveva fatto la domanda ed era andato in Africa. Quando
è venuto a casa in permesso, l’ hanno preso e l’ hanno portato in Via Asti per fargli dire dove erano gli altri due fratelli.
Tutte le settimane, per due mesi, prendevo il trenino e andavo a Torino a portargli la biancheria, ma non l’ ho mai visto.
L’ultima volta che sono andata volevano sapere da me dove fossero gli altri due fratelli e mi hanno messo in una cantina per farmi paura. Sono stata lì ventiquattro ore. Allora avevo quindici, sedici anni. Poi mi hanno fatto vedere mio fratello.
Aveva una barba lunga che quasi non lo riconoscevo; ci siamo abbracciati e poi l’ hanno lasciato andare.
Lui sapeva ma non ha parlato, però a quel punto è dovuto andare via con Elio Ferrero e i Piol al Colle Braida.
Gli altri due fratelli erano a Rubiana, al Colle del Lys.
Così io e il fratello più giovane dei Piol abbiamo cominciato a fare un po’ la staffetta.  
    
MACARIO Giovanni
L’8 settembre  è cominciata la guerriglia. L’abbiamo saputo per radio. Noi non avevamo la radio però andavamo sempre
ad ascoltare Radio Londra dal vicino di casa. L’8 settembre c’erano le batterie al fondo di corso Allamano e i militari erano più soltanto italiani. Sono scappati e sono venuti sfollati ai Tetti cercando dei vestiti, e anche noi ne abbiamo accolti due. Intanto avevano abbandonato le caserme e tutte le armi lungo le strade.
Noi ragazzini andavamo in giro e abbiamo trovato dei fucili. Non so perché ne ho presi due e li ho portati a casa. E sono
stato anche rimproverato da quei due militari che mi hanno detto che era pericoloso tenere le armi in casa. Comunque li ho oliati e sotterrati. Quei due fucili si sono poi rivelati utili perché sono partiti insieme a mio fratello e ad altri quattro.   
    
NICOLETTA Giulio
L’8 settembre, quando è crollato il regime fascista, ero sottotenente del Regio Esercito Italiano e la mia sede era a
Beinasco. Ero stato mandato dal mio reggimento di Vercelli in un reparto che aiutava la popolazione nello spostamento di materiali. A Beinasco l’8 settembre mi ha raggiunto mio fratello che era in Croazia e insieme abbiamo deciso di andare in montagna in Val Sangone dove avevamo saputo che c’era il maggiore degli Alpini Milano. Sono andato lì perché mi avevano detto che c’era un numero consistente di uomini che combattevano contro i fascisti e i tedeschi. 
I tedeschi stavano occupando il paese e noi non avevamo nessuna intenzione di andare a vivere con i tedeschi e non
sopportavamo la loro presenza. Così io e mio fratello abbiamo deciso di iniziare la guerra ai tedeschi.
Quando il maggiore Milano è scomparso siamo rimasti soli e allora abbiamo deciso di organizzare la formazione, e
sono confluiti partigiani in numero così consistente che c’erano sei o sette brigate.
C’erano il professor Usseglio, medico, che comandava la Campana; Sergio De Vitis, che è stato un grande
combattente, a cui è stata intitolata la Divisione; Nino Criscuolo, che era un comandante,
ufficiale dell’Esercito degli Alpini; Carlo Artegiano, mio fratello Franco, Fassino di Avigliana, Falzone, Guido Guazza, Campana, Cordero di Pamparato. Quindi c’era una struttura consistente.    
    
PARACCA Gina
Quando è venuto l’8 settembre mio fratello Geppe del ’24 era a Fenestrelle; l’altro mio fratello Tonio era a Novara, tutti e
due militari. L’8 settembre invece di arruolarsi hanno deciso di scappare in montagna.
Non volevano andare con i fascisti e pensavano che le cose si sarebbero sistemate entro qualche mese.  Tonio da
Novara è andato a Rivoli e mio fratello Geppe è scappato con Augusto Piol. Gusto e Geppe hanno fatto tutta la montagna da Fenestrelle, sono scesi giù nella Val Sangone, poi sono risaliti di nuovo e sono arrivati ai Cervelli di Coazze, un paesino di poche case. Erano proprio sfiniti. Mio fratello aveva i piedi che sanguinavano e allora si è tolto gli scarponi da militare. Una signora lì ha fatto scaldare una bacinella d’ acqua per fargli mettere i piedi a bagno, poi ha dato loro da mangiare e da bere e li ha fatti dormire nel fieno. Sono rimasti lì un paio di giorni e poi sono venuti a Rivoli.
Dove abitavamo noi c’era uno che informava i fascisti e allora questi ragazzi hanno avuto paura e sono scappati ai
Cervelli e si sono fermati lì finché il gruppo non si è ingrossato. Non c’erano solo i miei fratelli, c’era Gusto Piol e poi si sono ritrovati tutti su in montagna.
Io ero qui a Rivoli, ho continuato a lavorare e anche mio padre ha continuato ad andare a lavorare.
Poi quando hanno ammazzato il padre di Piol mio padre, mia madre, mia sorella  ed io siamo fuggiti in montagna,
perché i fascisti erano venuti a cercare mio padre. Durante la lotta partigiana siamo sempre vissuti in una baita.  
    
SIMIOLI Abe
L’ 8 settembre mio fratello maggiore Bruno che era in marina e che aveva già la croce di bronzo al valor militare è
scappato, è venuto a Rivoli. La prima cosa  che ha fatto è stata di andare in montagna e di unirsi ad Augusto Piol nelle brigate della zona del Colle del Lys  
    
SIMIOLI Bruno
Durante la guerra sono stato richiamato in marina, perché per un certo  periodo avevo lavorato in una fabbrica in cui si
facevano mobili per la marina.
Sono andato a La Spezia e dopo due mesi, era il ’42, mi hanno imbarcato su una motonave insieme ai tedeschi.
Si andava in Africa a portare il materiale e noi militari eravamo addetti all’armamento.
L’8 settembre si diceva che la guerra fosse finita e nel porto c’erano le navi americane che invitavano tutti i militari a
imbarcarsi con loro.
Tutti quelli che erano meridionali si sono imbarcati con gli americani sulla nostra nave, la Roma, che poi è stata affondata. Io ho deciso di tornare a casa, mi sono tolto la divisa e ho preso il treno fuori dalla stazione perché lì c’erano i tedeschi. Il macchinista rallentava e noi saltavamo sul treno.
Sono così arrivato a casa, ma per poter mangiare bisognava avere la tessera e se non l’avevi non ti davanoil pane.
Per avere la tessera bisognava consegnarsi in comune e se l’avessi fatto avrebbero saputo che ero lì e che, pur essendo
militare, ero tornato a casa.
Allora io, i Carassio e i De Paoli abbiamo pensato di andare ai Cervelli dove c’era una signora che ci dava da mangiare
quello che poteva. Qualche volta scendevamo dalla montagna per prendere qualcosa da mangiare, perché in montagna la fame era terribile. Pensavamo che la guerra sarebbe finita e invece continuava.
Poi il 17 settembre sono arrivati Nicoletta e altri con dei carri armati  che bucavi con una fionda.
C’erano il tenente Rosa, il tenente De Carlo. Erano badogliani e volevano che i militari stessero da una parte e loro dall’
altra.  Ma noi pensavamo di essere tutti uguali, tutti militari e allora ce ne siamo andati dalla Val Sangone in Val Susa, nella 41° Brigata Garibaldi “Carlo Carli” fondata dal fratello di Bruno Carli. Il comandante era Fassino, perché Carlo Carli era stato fucilato ad Avigliana.
Siamo sempre stati lì, eravamo con Piol, c’era tutta la nostra squadra.
Ogni tanto si veniva giù dalla montagna. Io non lavoravo, però un’impiegata mi aveva dato un documento bilingue firmato
dai tedeschi con il quale potevo circolare perché risultava che lavoravo in fabbrica.
Ricordo quando sono andato a prendere questo documento. Sono arrivato in piazza dove c’erano i fascisti con una lista.
Mi avevano già avvisato, ma io ero tranquillo perché in regola. Quando hanno letto il mio nome mi hanno preso e  portato in caserma in via Asti. 
Lì c’era Bonaglia, il pugile, che picchiava e torturava. Fortunatamente mi ha riconosciuto perché io andavo a vederlo
quando veniva a Rivoli a fare la boxe. Allora si è fatto dare il bilingue dicendo che io ero a posto e che potevano lasciarmi andare.
Sono andato di nuovo in montagna, però venivo giù per reclutare altri compagni e così abbiamo costituito il gruppo di
Rivoli; eravamo una trentina circa e tra questi c’era anche Piol. Portavamo le armi nella casa elioterapica, dove adesso c’è la scuola Gobetti, perché il figlio della portinaia era nostro amico.  




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27 gennaio - Il Giorno della Memoria 


Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell'Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.

Il testo dell'articolo 1 della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria: « La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della 
Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (nota con il nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento e liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista.

Il 27 gennaio il ricordo della Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebreo, è celebrato anche da molte altre nazioni, tra cui la Germania e la Gran Bretagna, così come dall'ONU, in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005.

In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi, Chełmno, e Bełżec, ma questi campi detti più comunemente di "annientamento" erano vere e proprie fabbriche di morte dove i prigionieri e i deportati venivano immediatamente gasati, salvando solo pochi "sonderkommando".

Tuttavia l'apertura dei cancelli ad Auschwitz, dove 10-15 giorni prima i nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con se in una "marcia della morte" tutti i prigionieri abili, molti dei quali morirono durante la marcia stessa, mostrò al mondo non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento del lager (anche se è doveroso dire che due dei forni crematori situati in Birkenau I e II furono distrutti nell'autunno del 1944).

In Italia sono ufficialmente più di 400 le persone insignite dell'alta onorificenza dei Giusti tra le Nazioni per il loro impegno a favore degli ebrei perseguitati durante l'Olocausto.

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Alcuni cenni storici tratti da Wilkipedia


Ponte San Pietro sorge sulle rive del fiume Brembo, dividendo di fatto il paese in due zone ben distinte. Distante circa 7 chilometri dal capoluogo, viene considerato il primo paese provenendo da Bergamo dell'area chiamata Isola, zona geografica comprendente 21 comuni suddivisa dalle acque dei due principali fiumi, Adda e Brembo, e dalla netta divisione delle valli e montagne orobiche antistanti.


Storia  
Il nome si pensa sia stato coniato dalla presenza di un piccolo ponte sul Brembo e dell'annessa piccola chiesa dedicata a San Pietro nel 881, tramite una scrittura notarile riportante "Basilica Sancti Petri sita ad pontem Brembi". Ponte San Pietro, sin dalle origini, restava comunque una zona di passaggio in un punto del letto del Brembo difficile da attraversare in barca: pertanto solo 200 anni dopo incominciarono i primi insediamenti da una parte del fiume (S. Petri de là) all'altra (S. Petri de za).

Manfredino De' Melioratis, negli ultimi anni del XIII secolo, costruì un castello nella attuale centro storico, insediamento poi distrutto dai veneti agli inizi del '700. Parte dei materiali demoliti furono riutilizzati per erigere sulla primissima chiesetta campestre, quella che dal popolo sarà sempre ricordata come "Chiesa vecchia". Questa chiesa ha permesso di ricostruire alcune vicende storiche del paese, avendo conservato per secoli alcuni scritti e cadaveri soprattutto nel periodo della peste.

Sempre nel '700 a Sottoriva di Locate frazione di Locate fu eretta la Villa Mapelli Mozzi, una residenza di stile neoclassico molto simile alla più famosa Villa Reale di Monza; venne ampliata nella sua attuale forma (il cantiere per la costruzione era pienamente attivo e perciò il progetto completamente definito) nel 1773 (il Conte Enrico Mozzi "alzava"), antecedentemente, quindi, alla Villa Reale di Monza[2]. All'interno si possono ammirare decorazioni ad affresco di Vincenzo Angelo Orelli, ad esempio l'Homo faber suae fortunae[3], e di Paolo Vincenzo Bonomini.

Nel 1934 fu invece completata, in un altro punto del paese, la chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo. Tale chiesa si differenzia da quella vecchia soprattutto per le dimensioni e per il campanile molto alto, diventando in quel periodo il centro di incontro cristiano sia per la popolazione del posto, sia per tutta l'Isola bergamasca.


Sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, Ponte San Pietro è stata spesso bombardata a causa dei suoi ponti (ferroviari e stradali) che permettevano l'approvvigionamento di materiale bellico tra Bergamo e Milano. I ponti rimasero illesi, mentre gran parte del territorio circostante fu devastato delle bombe lanciate dagli aerei.


Cultura  
Villa Mapelli MozziLa festa patronale cade il 29 giugno, in memoria dei Santi Pietro e Paolo. In tale occasione vengono proposte le giostre, feste in piazza e fuochi d'artificio. Inoltre il 6 gennaio ogni anno si festeggia l'arrivo dell'anno nuovo con altri spettacoli pirotecnici sparati direttamente sul "Famedio", una imponente scalinata con annesso Parco delle Rimembranze in memoria delle vittime della guerra. Esistono poi altre manifestazioni minori, spesso di un solo quartiere specifico (ad esempio: Sant'Anna - 26 luglio) o organizzati dalla Chiesa o l'oratorio del paese. Nel periodo natalizio Ponte San Pietro si distingue per la costruzione di un presepio di vaste dimensioni sul greto del fiume, creato dagli Amici del Presepio, o per una raccolta di diorami (presepi classici e scene della vita e passione di Cristo) mostrati nella chiesa vecchia. Tali presepi sono opera di scultori provenienti da qualsiasi parte del mondo, e tale occasione richiama molti visitatori ogni anno.

Economia  
La breve distanza dal capoluogo ha fatto sì che Ponte San Pietro diventasse punto di transito e zona di mercato per il commercio per tutta l'Isola. Molte aziende hanno quindi insediato Ponte San Pietro sin dai primi anni del 1900. In particolare, presente tutt'ora, è la Legler, stabilimento industriale manifatturiero che copre parecchi chilometri quadrati di superficie del paese, e che ha permesso, soprattutto nel dopoguerra, di fornire lavoro e benessere alla popolazione del luogo. Altre industrie che hanno reso vitale il paese sono state le industrie aeronautiche nella prima e seconda guerra mondiale, tra le quali la Cantieri Aeronautici Bergamaschi (CAB) del gruppo Caproni (ora trasformate in quartieri residenziali), industrie metallurgiche e produzione di lavatrici ed elettrodomestici in genere. Infatti, a differenza di altri paesi limitrofi, gli abitanti di Ponte San Pietro non potevano permettersi di vivere di agricoltura: il paese, nato in un avvallamento naturale del fiume Brembo, non permetteva di avere grossi appezzamenti di terreno ad uso agricolo. Pertanto il paese ha cambiato sin dalla Seconda guerra mondiale trasformando i pochi campi coltivati in aree commerciali e residenziali, grazie e soprattutto ai servizi forniti dal capoluogo (mobilità con treni ed autobus, servizi ospedalieri e sanitari, svariati uffici pubblici). Oggi il paese prevalentemente vive di commercio e produzione tessile e metallurgica.

Viabilità e trasporti
Ponte San Pietro è situato lungo la SS 342, nota come "Briantea" che collega la città di Bergamo con Como. Il Comune di Ponte San Pietro è servito dall'Azienda di Trasporto pubblico di Bergamo (ATB) grazie alla linea 8 che collega il comune al capoluogo.
Ponte San Pietro è servita dalla stazione ferroviaria omonima, situata sulle linee Bergamo-Lecco e Bergamo-Carnate.

 Quartieri
Famedio ai caduti di Ponte San Pietro Briolo
Briolo è un quartiere del comune di Ponte San Pietro localizzato nella parte nord-est del paese. Fino all'anno 2004 contava una densità abitativa di circa 1000 persone ed era separato dal paese da una piccola area verde incolta. Da questo periodo il parco è stato sostituito per intero con nuove costruzioni che hanno elevato la demografia del quartiere a circa 2000 persone.
Sul suo territorio si contano due piccole chiese con due storie completamente differenti. San Marco, la più piccola, era in origine una piccola cappella immersa nei campi nella quale, in tempi antichi, venivano sepolte le vittime delle grandi infezioni di peste. Gran parte degli affreschi di questa cappella sono dedicati al tema della Danza macabra. Dagli anni ottanta questa è stata recuperata dal locale distaccamento del Corpo Alpini, che effettuandone una ristrutturazione ed un ampliamento, l'hanno resa alla comunità come una vera e propria casa di culto. Il 25 aprile di ogni anno, festa del patrono a cui è dedicata, viene effettuata una celebrazione alla presenza dei rappresentanti del Corpo Alpini, ormai indissolubilmente legati a questo luogo di culto.
La seconda chiesa, offerta al culto di San Michele Arcangelo, si trova incastonata nel più vecchio casolare di Briolo, il quale risale ai primi dell'800, quando tutto il quartiere non era che una grande distesa di campi. La celebrazione del patrono in questa chiesa, il 29 settembre, è il fulcro di due settimane di feste che si svolgono per le vie del quartiere, coinvolgendo tutti i suoi abitanti.
Briolo è confinante a nord col comune di Valbrembo, ad ovest, separato dal fiume Brembo, col comune di Brembate di Sopra e ad est con il comune di Mozzo.

Villaggio Santa Maria 
Altro quartiere del comune è il Villaggio Santa Maria. Originariamente sorto come centro abitativo per gli operai della vicina industria Aeronautica Caproni (non a caso, originariamente era detto "villaggio Caproni") mantiene ancora oggi le caratteristiche viuzze strette e perpendicolari, con villette a schiera a due piani, identiche fra loro (anche se oggi questa caratteristica si è in buona parte persa, per via dei molti lavori privati di ristrutturazione ed ampliamento).

Locate Bergamasco  
Locate Bergamasco è una frazione di Ponte San Pietro. In origine Locate era stato dichiarato comune della provincia di Bergamo. Il suo territorio comprendeva i territori di Sottoriva, le aree circostanti all'attuale ospedale (comunemente chiamato "clinica") e la frazione Villaggio Santa Maria. Anche la stazione ferroviaria faceva parte del territorio di Locate. Nel 1863 prese il nome di Locate Bergamasco. Nel 1927 Locate Bergamasco con tutti i suoi territori venne accorpato al comune di Ponte San Pietro.